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L’insediamento dei coloni nell’Agro Pontino

di Marina Cozzo –
Le membra stanche per il viaggio dal lontano Veneto o Friuli, la fame, l’incapacità di capire dove si trovassero e di dare consolazione al pianto dei marmocchi esausti. Quante domande saranno balenate tra le menti delle donne colone dell’agro pontino, appena arrivate in quelle terre da poco risanate dalla palude.
Il cibo della prima sera, offerto dall’O.N.C., consisteva in pane, formaggio e un po’ di vino per scaldarsi. Ma spesso il bisogno di un futuro, la dignità, l’abnegazione saziano le pance incave di veri eroi di una epoca.
Il podere conteneva una costruzione e, poco distanti, un pozzo, il forno e la concimaia. Ogni famiglia doveva poi provvedere ai propri bisogni e la casa, anche da ultimata, veniva consegnata vuota: lungimiranti coloro che erano portati il mobilio da casa.
Le giornate dei coloni si consumavano dall’alba al tramonto e vedevano gli uomini impegnati nell’aratura, solcatura e scolatura dei canali utilizzando soltanto le zappe e, se erano fortunati ad avere già i buoi, dell’aratro. Le donne, invece, si occupavano di qualsiasi cosa (mi pare di conoscere questa situazione!!): crescevano i figli, andavano tra i campi ma pulivano anche la casa, cucinavano e si occupavano degli animali da cortile. Ognuno aveva il suo compito, ma, allo stesso tempo, accorrevano dove vi era più bisogno.
L’acqua si raccoglieva dal pozzo, il pane si impastava e si cucinava nel forno e il latte si otteneva dalla mucca “da latte” fornita dall’Opera. Anche per gli animali, si dovette aspettare qualche tempo: non tutti ne trovarono subito nella stalla.
Il primo fornito era la mucca, poi i buoi per all’aratura e di essi bisognava averne molta cura altrimenti si andava incontro a sanzioni.
Il colono si occupava di tutto per mantenere l’animale: cibo, acqua e pulizia. Era vietato, come da patto colonico, la macellazione di questi animali, i quali appartenevano in parte all’Opera e in parte al colono. L’unico animale adatto alla macellazione era il maiale di cui la quantità numerica veniva stabilita in base all’unità lavorativa e consumatrice di ogni famiglia; si potevano possedere, poi, animali da cortile come le galline per le uova.
Era una condizione in cui ci si improvvisava, spesso, nei lavori. Per esempio le donne non sapevano fare il pane; esse venivano da luoghi poveri, è vero, ma erano pur sempre paesi provvisti di botteghe con vari generi alimentari. Così, le colone impararono a fare il pane per le loro famiglie e appresero il metodo dalle mogli dei fattori.
Si andava avanti nei giorni, nelle settimane e nei mesi, cercando di lavorare il più possibile per mantenere le numerose famiglie e seguendo il ciclo delle stagioni e gli ordini dell’Opera. È, infatti, quest’ultima che decide ogni cosa: dal numero di quintali per la semina, al giorno della stessa, dal tipo di grano e alle erbe mediche consentite e così via.
Insomma tanto duro lavoro, tanto sudore, schiene spezzate di uomini e donne capaci di rendere domo e ameno uno dei territori più ostici d’Italia, considerando i reiterati tentativi dell’antichità.

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Marina Cozzo

Marina Cozzo

Giornalista