Libro: “Confesso di aver insegnato – Diario di un viandante tra scuola, cinema e teatro” di Giorgio Maulucci
di Cora Craus –
Una citazione/omaggio a Pablo Neruda è il titolo: “Confesso di aver insegnato – Diario di un viandante tra scuola, cinema e teatro” di Giorgio Maulucci, (ed. Atlantide – pag. 390 – € 20) un libro intenso e denso, capace di comunicare profonde emozioni. Un’autobiografia che mette a nudo la passionale e appassionante vita professionale dell’autore. Le pagine del libro ci rimandano un affresco che va dagli anni ’50 a oggi. Le pagine sono gustosi bozzetti letterari che rivelano e affermano l’essenza dell’autore: un solido e raffinato intellettuale.
Il cinema e il teatro vissuti, studiati, realizzati, sono un tratto fortissimo narrato nel libro fin dalle prime pagine. Pagine in cui il privilegiato lettore/ce si ritrova a incontrare personaggi quali Carmelo Bene, Giorgio Strehler e Luca Ronconi da lui definiti “La bibbia del teatro italiano contemporaneo”.
Da dove nasce questa precoce passione per il cinema del nostro autore? Probabilmente da una sorte di “predestinazione”. Personalmente ho questa debolezza di credere in un disegno chiamato destino. Che si esprime nell’avere, ciascuno di noi, una missione da realizzare. Per Maulucci, come un misterioso alfabeto da decifrare, si sono presentate mille e sorprendenti “coincidenze” legate al mondo del cinema: dalla traumatica esperienza di essere dimenticato, bimbetto, all’interno di una sala cinematografica, all’ essere “scansato” da una massaia brusca e indaffarata con la spesa: il premio Oscar Anna Magnani. Fino all’incontro, giovanissimo, con miti quali Federico Fellini, Giulietta Masina, Annie Girardot, Luchino Visconti. Avvenimenti, coincidenze, sincronicità che hanno portato l’autore a scrivere: “Avvertivo di essere passato dall’inconscia, fanciullesca predisposizione per il cinema alla cosciente percezione del meraviglioso senso del cinema”.
Maulucci ha animato, da protagonista, la vita culturale della città aprendola, attraverso la scuola, a esperienze che ne ampliassero gli orizzonti. Perché, se è vero che Latina è nata come città senza mura e quindi senza soffocanti confini, è pur vero che le mura più difficili da abbattere sono quelle invisibili, create dal pregiudizio o da una infelice realtà storica, dalla pigrizia e dall’ignoranza. Ostacoli e battaglie che si possono vincere con la cultura, con lo scambio di reciproche conoscenze, con l’apertura mentale e con rivoluzionarie innovazioni. Come rivoluzionaria e innovativa è stata l’idea di scuola del prof Maulucci: portare il cinema e il teatro in una “ordinaria” routine di studio. D’altronde, leggere e insegnare “recitando” è stata la sua cifra stilistica di grande successo.
“Confesso di aver insegnato – Diario di un viandante tra scuola, cinema e teatro” è un’autobiografia che, lungi dall’essere un esercizio di esaltazione narcisistica, pericolo sempre in agguato in questa tipologia letteraria, è una narrazione abitata dall’attenzione, dal rispetto e dall’affetto che l’autore esprime nei confronti di vicende e personaggi anche minimi, sentimenti talora rivestiti di arguta ironia. Ho vissuto la lettura come un prezioso taccuino di viaggio nella grandezza del sapere e nell’umanissimo e sconosciuto mondo, costellato di fatica, che si nasconde dietro le quinte della scuola. Un libro che mi piace definire, parafrasando la definizione di Balzac, “commedia della vita” dove incontriamo nomi e persone che sono stati concreti o ideali compagni di viaggio dell’autore e riversati con generosità e impegno nella vita collettiva della città. E la città siamo tutti noi, nessuno escluso.
Un passo del libro:
“…Sarebbe arrivato un regista per girare un film, si trattava di Visconti sì, quello di “Bellissima”. Lui ci arrivò suo malgrado, per essergli stato negato, l’ultima ora, di girare all’Idroscalo di Milano le riprese finali di “Rocco e i suoi fratelli”, ritenute dalle autorità comunali e della Provincia indecorose e disdicevoli per l’immagine della città. Fece il sopralluogo, adattò un tratto del Lago a somiglianza del luogo lombardo collocando un baracchino e qualche lampione sulla sponda. Alle sei del mattino iniziò a girare. Franca ed io eravamo là, riconoscemmo per primo Renato Salvatori, rimanemmo colpiti da Annie Girardot: indossava una pelliccia bianca e sottoveste nera, camminava sospettosa inseguita minacciosamente da Salvatori. Visconti la “dirige” verso un albero dicendole di appoggiarsi mentre lui fa per accoltellarla; in italiano e in francese le dice di aprire la pelliccia, sollevare lentissimamente le braccia. – “Come fossi Cristo sulla croce, Annie, piano, doucement, trasognata…” Ferita a morte, la guida con lo sguardo mentre si trascina fino alla sponda per essere finita. Al termine, tutta la troupe appariva provata dalla forte emozione, noi due, benché annichiliti dalla crudeltà della scena, rimanemmo incantati dal regista e dagli attori. Avvertivo di essere passato dall’inconscia, fanciullesca predisposizione per il cinema alla cosciente percezione del meraviglioso senso del cinema”. (pag. 43)