È LA VITA, DOLCEZZA di G. Kuruvilla
di Cora Craus –
Il titolo del libro ci ha subito incuriosito richiamando alla mente una delle più celebre frasi cinematografiche di Humphry Bogart: “È la stampa, bellezza!
Il libro di Gabriella Kuruvilla, scrittrice-giornalista italo-indiana, con la passione per la pittura, lo abbiamo letto d’un fiato. Ci ha conquistato la sua verve, l’amara ironia che non arriva mai al sarcasmo, ci ha conquistato l’urlo silenzioso e potente che si dispiega nelle sue pagine racchiudendo rabbia, disperazione, disincanto, disillusione. Sentimenti che nella penna di Gabriella non prendono mai la strada dell’odio. Ci ha conquistato la narrazione che pur scendendo in meticolosi particolari non si disperde e non perde il ritmo.
I personaggi, creati da Gabriella Kuruvilla, sono tessere di un mosaico che mostrano la più disparata umanità: dove si sovrappongono il realismo crudo delle storie violente e il forte valore simbolico. Caratteristiche particolarmente evidenti nel racconto “Stupro”.
Di cosa parla “È la vita, dolcezza”? (ed. Morelli- pag,134 – €9,90) Sono quattordici racconti brevi, intensi sulla difficile avventura della vita, resa ancora più dura quando il “fato” ti ha messo ai margini. In questo libro il fato porta il nome di emigranti di seconda generazione, di “sangue misto” come recita il titolo di uno dei racconti: “Nero a metà”.
Ci siamo soffermati a lungo su un così banale e sprezzante modo di dire: “sangue misto”; un’assurdità, puoi avere la pelle nera come l’ebano o bianca come un albino il sangue è uguale: rosso. D’altra parte, i genetisti hanno dimostrato che gli esseri umani condividono il 99,9% del patrimonio genetico e gli antropologi, da oltre un secolo, ci dicono che le “diversità” sono solo di ordine culturale.
Poiché le parole sono pietre vogliamo ricordare un’iniziativa, promossa dagli antropologi biologici dell’Istituto italiano di antropologia (Isita) e l’Associazione nazionale universitaria antropologi culturali (Anuac), le due associazioni, hanno chiesto l’abolizione del termine “razza” dalla Costituzione.
Non basterà la soppressione di un termine, nell’immediato, per cambiare il corso delle cose; ma un piccolo grande passo avanti nella futura visione del mondo, del modo di relazionarci gli uni agli altri.
“Voglio la tradizione, quella che non mi è mai stata trasmessa, neanche con la musica o con la cucina. Bob Dylan e risotto alla milanese? Ma per favore, neanche fossi la figlia di un fricchettone brianzolo. Voglio il tuo passato, quello che hai cancellato, per ancorarmi al presente, in cui non ci sei. Voglio poter ascoltare una nenia induista mentre preparo un palak paneer. Vorrei poter dire: “Sono mezza indiana”, sentendo che un eco di verità risuona nelle mie parole”.
E’ indubbio che la seconda generazione di migranti, nata dalla fusione di due colori della pelle, di due culture diverse, nella “normalità” della vita di tutti i giorni pagano il prezzo più alto, tanto più alto proprio per il loro essere ponte, il loro essere reali portatori di due culture che, il più delle volte, si traduce in sentirsi senza radici, senza storia, stranieri nella propria terra. A chiedersi chi è lo straniero? E, forse, a ripetersi, con mille sfumature: “È la vita, dolcezza”.