Le nuvole possono coprirlo, ma il sole torna!
di Laura Fasciani –
Nel 2013, in Italia, si sono registrate circa 364mila nuove diagnosi per tumore maligno con un’incidenza maggiore tra la popolazione maschile (56%) rispetto a quella femminile (44%). Il tumore più frequente è quello del colon-retto (oltre 50mila nuovi casi), seguito dal tumore della mammella (46mila nuovi casi), dal tumore del polmone (38mila nuovi casi) e dal tumore alla prostata (36 mila nuovi casi).
Sono numeri spaventosi, eppure, proprio ora mentre li leggevi non hai pensato nemmeno per un secondo che questo potesse accadere a te: non te lo sto augurando, ma sto cercando di farti immaginare come mi sono sentito io, quando quel giorno, una donna in camice bianco, con un espressione così seria, professionale e distaccata mi disse: “Signor Marco, mi dispiace, lei ha un tumore”
“Ho un tumore, ok, ho un tumore” dicevo, la prima cosa a cui pensai fu che non poteva essere vero perché in fondo a parte quella mattina, io mi sentivo bene, camminavo ogni giorno sulle mie gambe e andavo al lavoro. Ogni giorno con quelle stesse gambe tornavo a casa, con le mie braccia avvolgevo mia moglie, con quella bocca baciavo mia figlia, io stavo bene, chi ha un tumore non sta affatto bene continuavo a pensare tra me e me, d’altronde si sa, si può sbagliare una diagnosi.
Ogni tentativo di fuggire quelle parole e di nascondere ogni cosa a chi mi stava intorno risultò vano, solo la terza volta che altri “camici bianchi” mi dissero la stessa cosa iniziai a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che tra quelle 364mila persone c’ero io!
Proprio io che alla morte non ci avevo mai pensato, proprio io così avviluppato al mio cinismo, proprio io che non avevo mai pianto fino ad allora, io che credevo di essere immortale.
Chi di noi a 43 anni crede di dover morire da un momento all’altro?
Mia moglie mi è stata accanto dal momento in cui ho accettato di confessarlo ad oggi, ricordo perfettamente il suo viso ogni volta che mi salutava prima di entrare in sala operatoria mentre lo vedevo sparire tra le porte che lo coprivano. Mia moglie, quell’angelo che non avevo mai apprezzato quanto meritava, mia figlia il frutto della nostra complicità, forse non avevo giocato abbastanza con lei, forse ero stato troppo severo quando la sgridavo per sentire meglio la partita di calcio, lo sapevo che dovevo rispondere alle sue domande senza credere che fossero troppo stupide per prestare attenzione.
Quando la morte, con quel suo aspetto lugubre e così, come tutti la immaginiamo, con quel cappuccio nero, viene e si presenta a te e ti dice: “Ciao Marco, ti vedo sorpreso, eppure lo sai bene che esisto, lo sai da quando sei nato!” Solo in quel momento senti che hai bisogno di fare tantissime altre cose: piuttosto che star lì sul divano la domenica dovevo uscire, dovevo portare Ale al parco, dovevo rispondere quando mi ha chiesto perché se era giorno non c’era il sole, dovevo dirglielo che può capitare che le nuvole lo coprano, ma di non essere triste perché poi torna…. perchè il sole è forte, e anche il suo papà.
È incredibile che io sia qui oggi, a raccontare quello che ho pensato in quel periodo, credo di aver impiegato più tempo a realizzare di esser vivo e di stare bene in confronto alle settimane che sono passate prima di accettare questa malattia. Si, è come la descrivono, è dura non mollare, però io devo ringraziare quell’incontro con quel “cappuccio nero” perché è grazie a lui che ora sono un uomo migliore.
È grazie a questa “esperienza” (mi piace chiamarla così) e alla vita che mi ha donato di nuovo, che ho imparato ad apprezzare la grande bellezza che mi circonda. È come se io fossi morto in quel momento e sotto lo stesso aspetto fosse venuto al mondo un uomo consapevole, pienamente consapevole di quanto sia magnifico non sottovalutare nemmeno per un attimo il tempo che abbiamo, e nemmeno per un secondo provare a pensare di non dire quello che vorremmo dire.
Ho pensato che avrei iniziato a sorridere di più!