Absolute beginners. Una latinense a Londra
Dopo il biglietto aereo e l’audace impresa di impacchettare quattro anni di vita in un pomeriggio, non resta che partire. E atterrare. E sistemarsi.
La fortuna dell’inflazione di Londra come meta di disperati italiani in fuga è che al mio arrivo non sarei finita in un ostello cheap e decadente, ma avrei avuto un accogliente riparo a casa di amici, con un solido tetto sulla testa, parquet a terra e un divano letto senza rete – non si può certo volere tutto.
L’altro lato della medaglia della suddetta inflazione, è che non sei mai l’ultima ad arrivare. Pertanto, causa seconda mandata di expat da ospitare, il riparo era disponibile solo per una settimana. Senza dimenticare che il lunedì stesso avrei cominciato il tirocinio, ovvero il motivo fondamentale di tutto.
I miei primi giorni hanno avuto un solo obiettivo: trovare casa. O meglio una stanza dentro una casa. Una stanza in cui si possano fare almeno quattro passi dalla porta al letto. In una casa che abbia almeno il tavolo in cucina. O che non abbia più di cinque abitanti. E che non sia in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. E, last but not least, non costi mensilmente l’equivalente di una crociera ai Caraibi.
Ecco, ho scoperto che la combinazione di questi requisiti è improbabile quanto trovare la combinazione del caveau di una banca – dubito fortemente che sia semplice come si vede nei film.
Armata di un nuovissimo numero inglese e di un quasi nuovissimo telefono ereditato da mio padre, comincio a mandare messaggi di testo come un’adolescente dei primi anni 2000. Un buon 60% non si degna neanche di rispondere. L’altro misericordioso 40% , parliamo comunque di una ventina di persone, mi dà un appuntamento.
Sicuramente il mio budget ridotto non aiutava, ma i posti che mi sono trovata a visitare erano oltremodo imbarazzanti. In alcuni casi al limite del dignitoso, in un caso ben al di sotto della soglia minima, non dico della vivibilità, ma della decenza. Stanze ricavate tirando su muri di cartone, creando ambienti angusti e senza finestre, impianti elettrici a vista, muri scrostati.
La cosa probabilmente che però più mi ha sconvolto è che la maggior parte delle case aveva delle micro cucine, senza neanche lo spazio per un tavolo. E ovviamente senza living room, trasformata in stanza, magari doppia per massimizzare il profitto. E al mio stupore mi è stato risposto sempre “well, mangi in camera”.
A questo punto immagino che per loro sia normale, ma per un italiano è inimmaginabile. Anche il più pigro dei fuori sede la sera vuole sedersi a tavola e mangiarsi il suo cordon-bleau scongelato o la sua pasta col tonno e farsi quattro chiacchiere con i propri inquilini. O magari non dirsi una parola o litigare per le bollette, ma in ogni caso avere un luogo neutro di scambio e d’interazione, naturalmente facilitata dalla passione nazionale per il cibo.
Al terzo giorno mi era preso un profondo sconforto e una voglia irrefrenabile di essere al sicuro sul mio divano, dopo una deliziosa cenetta con i miei coinquilini.
Al quarto giorno di ricerche, avevo realizzato che era già domenica, il giorno dopo cominciavo a lavorare e mercoledì in giornata dovevo andarmene dal mio rifugio. Dopo un’altra lunga, fredda e infruttuosa giornata, tra gelo, case tremende e appuntamenti annullati, mi stavo avviando verso l’ultima viewing della giornata, una che avevo rimandato dal giorno prima, ma in cui non speravo per nulla.
E invece era lei: la combinazione non perfetta, ma la meno peggio.