La magia del Piccolo Principe sul grande schermo
di Marina Bassano –
Quando si tratta il libro più tradotto del mondo (oltre 250 traduzioni), con 145 milioni di copie vendute, e si vuole farne un film, è inevitabile che i rischi siano tanti, così come la critica che può risultare severissima e le aspettative che possono essere deluse, a maggior ragione da un libro che fa dell’immaginazione la sua caratteristica principale.
Mark Osborne, regista del riuscitissimo Kung Fu Panda, si cimenta con un pilastro della letteratura mondiale, Il Piccolo Principe di Antoine de-Saint Exupéry, datato 1943, e lo fa alla grande.
Le difficoltà della trasposizione erano diverse, ma il risultato è un film d’animazione che resta impresso negli occhi di grandi e bambini con la sua magia.
Punto di forza della sceneggiatura è sicuramente il doppio registro usato per la storia della bambina e dell’aviatore, una normale animazione 3D, e quella dello Stop Motion usata per raccontare gli estratti dal libro, tecnica che differenzia al punto giusto i due piani narrativi e contribuisce a rendere l’atmosfera fiabesca della vicenda del Piccolo Principe. La tecnica infatti, permette di ripassare sui disegni originali, rendendo al massimo la fedeltà al testo. I disegni prendono vita nel modo più naturale possibile, come racconto nel racconto sullo sfondo della storia della bambina che viene rapita dal mondo incantato dell’aviatore vicino di casa.
Ritornare all’essenziale, termine iper usato nel film, che è importante. Quell’essenziale che tutti i bambini dovrebbero ricordare sempre: ciò che abbiamo nel cuore, sempre più difficile oggi da riconoscere e proteggere. Le metafore del capolavoro di Saint Exupéry sono concretizzate e forse semplificate il giusto, per un film che vuole rivolgersi in primo luogo ai ragazzi, laddove il libro risulta a tratti molto impegnativo per la lettura di un bambino.
Il grigio della vita di città, inquadrata, delle case tutte uguali, delle macchine sincronizzate, del “progetto di vita” con cui la madre della protagonista aveva programmato al minuto i prossimi anni di vita della figlia, si scontra con il colore del giardino dell’aviatore e con le tinte di un tenue pastello-vintage della storia del Piccolo Principe, che aiuta a collocare quelle vicende in un posto ben preciso dei ricordi.
Oltre alla sovrapposizione di stili c’è anche un intreccio di significati, che aggiunge alcune tematiche più moderne al racconto originale.
L’immaginazione resta la molla con cui ci si salva dal mondo, con cui si rende possibile l’impossibile; che ci aiuta a non dimenticare di essere stati bambini e a riappropriarci di quel modo di guardare il mondo proprio dei bambini, il modo più intatto e puro che esista.
L’addomesticamento è l’altro tema cardine, capace di rendere una persona (o un animale) unico e speciale per un’altra; tematica vissuta parallelamente dal Piccolo Principe con la volpe e dalla bambina col vecchio aviatore, piani ricomposti dalle parole in ospedale all’aviatore, tratte direttamente dal libro:
“Si corre il rischio di piangere un po’, quando ci si è lasciati addomesticare”.
Quella di Osborne è una trasposizione che funziona, il primo tentativo riuscito di riportare l’opera sullo schermo, quando i precedenti erano caduti subito nel dimenticatoio. La storia di contorno è sicuramente semplice, ma così doveva essere per non andare a ingarbugliare troppo la trama e per far rimanere focalizzati sulla parte del Piccolo Principe. Se proprio si dovesse trovare un difetto, gli amanti del libro forse rivendicherebbero qualche citazione in più, ma la magia di vedere in animazione le immagini del capolavoro di Saint Exupéry fanno passare tutto in secondo piano.