Buon viaggio, Maestro. Degli anni insieme non dimenticherò un giorno
Di Giselda Palombi –
L’incontro con Dario e Franca era più o meno casuale. Assolutamente casuale era la coincidenza. Stavo lavorando ad una tesi sui Vangeli Apocrifi e Dario aveva in mano le bozze del suo nuovo testo, Gesù e Le Donne, che appunto attraverso le pagine degli Apocrifi sviscerava la questione sulle donne che facevano parte dei discepoli di Gesù. Lo scopo del suo libro era dimostrare – a ragione – il rispetto e l’affetto che il Cristo dei vangeli (sia canonici che apocrifi) provava per le donne, tanto da averle nella cerchia dei suoi discepoli. Lui fa una citazione attribuendola al Vangelo di Tommaso, io in automatico lo correggo: “E’ nel protovangelo di Giacomo”. Poi mi inchiodo, arrossisco vistosamente e mi guardo intorno, al silenzio che avevo provocato. Mi guardavano tutti, avevo corretto il Maestro, il Nobel del teatro italiano. Gli sguardi erano di rimprovero, tutti tranne il suo. “Sei sicura?”. Mi faccio coraggio e annuendo tiro fuori il quaderno di appunti che avevo con me e gli indico il versetto. Dario decide sull’istante di testarmi, e mi chiede di leggere per lui e Franca le bozze che avevano con loro. Leggo la prima frase tremando. Leggere il nuovo testo di Dario davanti a loro due era un’emozione incredibile. La prima volta che ero stata a teatro, da bambina, era al Teatro Tenda di Roma per l’Arlecchino. Erano seguiti due anni di emulazione della famosa coppia. Ora mi trovavo davanti a loro a leggere. La mia voce, il tono e l’intonazione sono adatti, mi fermano per commentare e chiedermi da quanto facevo l’attrice. Franca mi lascia il numero di telefono, io li richiamo solo dopo mesi, quando ho visto sul loro blog che cercavano collaboratori. Risposta: “Vieni domani”. E mi sono precipitata da loro, che mi hanno ospitato a casa il tempo necessario per trovarmi un appartamento. Cinque anni intensi, di lavoro fianco a fianco e quasi di convivenza.
A dispetto di ciò che pensavano gli altri, a ottant’anni suonati Dario lavorava ancora furiosamente. La mattina spesso si alzava presto e buttava giù velocemente i suoi appunti su enormi fogli, con la sua grafia rapida. Quando arrivavo, aveva già pagine e pagine pronte da rivedere. Lavorava voracemente perché – come mi disse – non c’era più tempo da perdere alla sua età. Ma Franca commentava che era sempre stato così, anche da giovane. E sempre con l’animo innocente, senza pretese, di un debuttante. Non entrava mai in scena senza scambiare due parole con Franca. Una sola volta l’ho visto affrontare il palco senza essere riuscito a sentirla. Eravamo a Venezia, per l’apertura del Carnevale. “Non sono riuscito a sentire Franca, non risponde al telefono. Come faccio?” Ed è comprensibile il mio stupore senza parole quando ha aggiunto: “E se stasera non vado bene? E se non ridono, se non gli piaccio?”. L’arroganza di certe meteore del teatro sarebbe svanita in un attimo se avessero sentito questo maestro – inventore di un genere, l’antimime, come lo chiamavano i francesi, con la sua sincera umiltà.
E questa umiltà era anche nel rapporto con me. Un giorno discutevamo animatamente, quasi violentemente. Il tema era Federico II di Svevia, che lui detestava per i tratti dispotici e io amavo per gli aspetti scientifici e letterari. Gridavamo, ormai, e Franca spunta sulla porta e mi rimprovera, Dario è un grande maestro, ha tanti anni e non dovrei trattarlo così. Dario la interrompe: “No, Franca, lascia stare. Giselda mi serve perché mi contesta sempre. Il suo contraddittorio è necessario”, e poi si è rituffato nella disputa. Dario non ha vinto solo il Nobel, ma anche diversi altri tra cui il Moliere, il che non gli impedisce di accettare e amare il contraddittorio e la contestazione da parte degli altri.
Leggendo sul web tra le varie polemiche trovo che qualcuno ha il coraggio, proprio oggi in occasione della sua morte, di fare la vecchia domanda sul “passato repubblichino” di Dario Fo. Ne avevamo parlato, io e il maestro. Mi aveva raccontato che era ragazzo ed era un momento di dure scelte, che si trattava di partecipare, da una parte o dall’altra. Lui era giovanissimo, aveva ancora 16 anni e decise che avrebbe dato una mano dall’interno. Così si fece assegnare all’ufficio di leva. Controllava le liste e verificava le richieste di congedo per chi ne aveva diritto (orfani, contadini in difficoltà economiche ed altre situazioni analoghe indicate dal Codice). Mi raccontò che aveva salvato la vita a tanta gente facendo carte false per loro. “Dario, devi raccontarlo a tutti”, gli ho detto subito. Ma non voleva. Non l’aveva fatto per i riconoscimenti. Così mi aveva detto ma non ne sono stata certa fino ad una mail che arrivò in ufficio una mattina. Un vecchietto scriveva per ringraziare: era uno di quelli che lui aveva salvato. Lo diceva nella lettera, lo ha ripetuto al telefono. Dario ha chiacchierato al telefono con lui ma prima ho scambiato alcune parole anch’io. “Ha rischiato lui per salvare me, e chissà quanti altri”. Lasciamo parlare i corvi che non sanno. Non ci aspetteremmo certo sensibilità da chi approfitta del giorno di morte per criticare, un momento in cui chi lo piange ha ben altri pensieri.
Il giorno del funerale di Franca, con la casa piena di personaggi noti della cultura, Dario trova un momento per rapirmi, mi porta nel suo studio e mi fa sedere “al solito posto” accanto a lui. Parliamo un po’, mi chiede di me per distrarsi, poi squilla il telefono, lui lo estrae in fretta, risponde, poi mi guarda triste: “Ancora quando squilla penso che sia la Franca”. Lo abbraccio perché non c’è niente da aggiungere. Due vite legate dall’amore profondo e dall’arte. Era lei ad ascoltare per prima i suoi testi, era lei che a volte lapidaria gli bocciava un passo, costringendolo a riscriverlo. Lui la cercava mentre ancora segnava il punto alla fine del testo, senza il parere di Franca niente era certo. E lei conosceva a fondo il suo genio, come quelli che gli sono stati accanto. Perché i suoi detrattori per lo più non l’hanno mai letto, limitandosi a qualche stralcio televisivo. La sorpresa continua, i colpi di scena, il suo peculiare grammelot, le soluzioni impensabili, la fantasia spinta fino al surrealismo, la provocazione sono il pane dei suoi testi. Le più grandi istituzioni teatrali del mondo lo osannano, eppure in Italia il suo Nobel è stato guardato con odio. Queste persone non hanno neppure letto la motivazione con cui l’Accademia di Svezia ha deciso il riconoscimento: “che nella tradizione dei giullari medievali fustiga il potere e riabilita la dignità degli umiliati”. Al tempo del premio, così come ora, Dario era uno degli autori più rappresentati in tutto il mondo. In assoluto il più rappresentato degli italiani. Quella nota en passant sui giullari è probabilmente un punto di mistero per chi non conosce la storia del teatro o quella della letteratura. Il ruolo del giullare nel medioevo era quello di contrastare il potere costituito quale che fosse, senza la violenza dei predicatori bensì con l’allegria chiassosa della satira. Dal medioevo al contemporaneo passando per il suo amato Brecht, tra gli altri. Quello che Dario non ha mai fatto, ma si può intuire dalle sue pagine, è sfoggiare il proprio sapere. Un sapere che andava dalla cristianità antica al mondo medievale, dalla letteratura contemporanea al cinema, ma il suo teatro parla al popolo e non specificamente agli intellettuali, quindi niente esibizionismi intellettuali, ed era una scelta deliberata in favore dei più, come era nella sua natura.
Giselda palombi