Novità editoriali. Il romanzo sulla violenza di genere “LO RIFAREI ANCORA” di Salvatore D’Incertopadre
di Cora Craus –
Violenza, delitto, amore, paura, amicizia, riscatto, perdizione sono i fili dell’ordito e della trama che determinano la creatività e la struttura narrativa del romanzo “Lo rifarei ancora” (Ed. Aletti – pag. 185 – € 16) che si apre quasi nel mezzo del plot, del suo nucleo centrale, per poi espandersi sia nel passato sia nel futuro. L’autore tratteggia tra le pagine i punti chiave della violenza domestica, mettendo in luce il contrasto tra l’aggressività strisciante dell’uno e la tremolante mitezza dell’altra. Egli trascina e coinvolge la sensibilità del lettore/trice in quell’escalation fatta di piccoli e progressivi abusi camuffati d’amore, d’attenzioni, da “perdonabile gelosia”.
L’autore ci conduce, con illusoria pacatezza, verso un’inaspettata violenza: quella ignara ed esplosiva che colpisce una “normale famiglia”, la famiglia della porta accanto. Lasciamo al lettore/trice il piacere di sorprendersi della cifra stilistica di Salvatore D’Incertopadre, dei risvolti della storia che si srotola con uno stile colloquiale e ricercato, leggero e profondo, briosamente filosofico e cupamente realistico.
Da parte mia voglio far convergere l’attenzione sul mondo femminile, sulla forza della sua unione e della sua capacità di salvezza, sulla sua resilienza e sui suoi inevitabili conflitti, così bene illustrati nelle pagine di questo romanzo.
La scena dominante si svolge in un luogo punitivo e opprimente per antonomasia: una cella del settore femminile del carcere romano di Rebibbia. Qui, all’ombra dell’aroma e del profumo di una tazza di caffè, simbolo di socialità, assistiamo alla nascita dell’amicizia tra due donne, due mondi culturalmente e socialmente distanti ma uniti, oltre che dalla detenzione, da un’acuta intelligenza e una solarità di animo.
Conosciamo subito le protagoniste: Angela, la vittima e l’eroina della delittuosa vicenda bisognosa di trasformarsi in una moderna Shahrazad per cercare un filo che la tenga legata alla volontà di vivere. Aida, una giovane napoletana che ha provato a sopravvivere con il contrabbando delle sigarette, causa della sua detenzione. Camilla, l’amatissima figlia di Angela. Efisia una voce e una mano amica che cerca di salvare e sorreggere Angela in quel deserto buio e paralizzante che è la violenza domestica, la quale porta con sé l’eco di storie che la cronaca ci rimanda con una frequenza sempre più ossessiva fino al femminicidio.
In questo romanzo pur essendoci tutti gli elementi affinché il femminicidio si realizzi, gli addendi vengono invertiti e si concretizza quello che qualcuno polemicamente ha definito “maschicidio. Angela uccide il maschio Stefano, il marito, nel disperato tentativo di scongiurare il finale ancora più tragico e cruento della violenza domestica: l’uccisione dei figli.
Anche quando il femminicidio non si concretizza, all’interno del nucleo familiare si respira un pericolo sospeso e latente e sui bambini si crea quella che gli esperti chiamano “violenza assistita”. Causa di “vite interrotte” e di futuri adulti senza autostima, che si sentiranno perennemente in colpa e continueranno a chiedersi se tutta quella violenza non sia colpa loro. Perché non hanno aiutato la loro mamma? Perché hanno fatto arrabbiare tanto il loro papà? Cosa avrebbero potuto fare?
Tra una tazza di caffè di Aida, napoletana dei quartieri spagnoli, e un sua citazione in dialetto emerge l’amore per Napoli dell’autore, che sceglie Aida quale messaggera dell’elemento salvifico e del risveglio alla speranza della protagonista Angela.
Aida è una donna provata dalla povertà ma non dalla mancanza di affetto e amore che, intorno a lei, sono sempre stati saldi e sinceri. Lei è l’antitesi di Angela, una donna provata negli affetti ma non dalla povertà. Angela e Aida, insieme in quella cella, immerse in taumaturgiche confessioni, rappresentano due mondi distanti: quello benestante, colto e intellettuale di Angela, e quello acuto, istintivo e popolaresco di Aida. La fusione complementare di due anime di un Giano bifronte al femminile.
Farebbe molta e inutile fatica il lettore/trice a voler ravvisare tra le pagine del romanzo “Lo rifarei ancora” gli echi dolenti e dilanianti dei quartieri spagnoli di Anna Maria Ortese. Se proprio si volesse cogliere l’impronta letteraria di una Napoli che fu, più probabilmente la ritroveremmo negli scritti di Giuseppe Marotta e nel suo “San Gennaro non dice mai di no”.
A fare da sfondo, quasi come un compagno di viaggio, un mondo molto caro e ben conosciuto dall’autore: il sindacato della CGIL anni ’90, gli anni del “cinese” Sergio Cofferati. Vale la pena ricordare che Salvatore D’Incertopadre è stato per molti anni il Segretario della CGIL Pontina. Nella narrazione emerge chiara la sua profonda e concreta conoscenza delle dinamiche, dei conflitti e delle violenze che si palesano su più piani; la sua è una lunga esercitazione nell’ affrontare i problemi veri, pratici e quotidiani dei lavoratori che spesso esondano dal puro piano lavorativo ed investono le persone nella loro totalità. E questa consolidata capacità di comprendere, interpretare e delimitare in maniera lucida anche i percorsi interiori dei vari soggetti, gli permette di “leggere” e raccontare i tormenti e le paure di un animo femminile immerso nel conflitto di una violenza domestica.
Non metterò in rilievo brani del romanzo dove è forte e incontrovertibile la descrizione della violenza maschile fisica, morale e psicologica ma ho scelto un brevissimo passo che mette in luce quello che avviene in molte donne che amano troppo: calpestare la propria autostima e annullare il rispetto di sé.
“Avevo indossato le mie scarpe rosse e un jeans elastico esageratamente attillato che disegnava netti tutti i miei contorni. Una camicia scollacciata che riprendeva il rosso delle scarpe e un giubbino in pelle, completavano il mio abbigliamento, quello che avrebbe dovuto suscitare in Stefano inconsapevoli desideri”.
In questo brano assistiamo alla metamorfosi estetica di Angela nella speranza di essere amata da Stefano. La descrizione dettagliata del suo abbigliamento, la ritroviamo nell’immagine di copertina che richiama ma non copia quello di Julia Roberts nella prima inquadratura del film “Pretty woman”. Poche righe che portano impresse i prodromi dell’incapacità di reazione di Angela e della sua futura disperazione, del suo essere in balìa dei capricci di un uomo.
Le scarpe rosse di sicuro non sono una scelta estetica bensì una scelta consapevole, una denuncia sociale dell’autore e il loro valore simbolico. Le scarpe rosse, emblema del 25 novembre Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne.
L’idea fu lanciata dall’ artista e attivista Elina Chauvet. “Era il 27 luglio del 2012 quando utilizzò per la prima volta, una sua opera creata con decine di scarpe rosse, in un’installazione artistica pubblica davanti al consolato messicano di El Paso, in Texas, per ricordare le centinaia di donne uccise nella città messicana di Juarez. E da quel giorno le scarpette rosse, dello stesso colore del sangue versato da tantissime donne in tutto il mondo, sono diventate il simbolo della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne”.
Come ricordato all’inizio, la storia si svolge e si dipana intorno a un mancato femminicidio, il cui significato, femminicidio, è ben espresso dalla scrittrice triestina Carmen Gasparotto in un post scritto su fb: “Femminicidio, non un omicidio qualsiasi. È una specifica che ha a che fare con un retaggio culturale profondo: il delitto passionale, la gelosia, il possesso. Lei lo ha tradito, lei non lavorava o lavorava troppo ecc. ecc… da tempi lontani e per troppo tempo la vittima è stata nascosta, per questo oggi bisogna parlare, bisogna trovare le parole giuste. E anche gli uomini dovrebbero iniziare a parlare. È da rilevare come poi si parli di “follia omicida” di come l’uomo abbia “perso la testa” cioè in questa lettura patologica dei femminicidi gli assassini sembrano non essere padroni di sé nel compiere l’atto, quando invece, nella maggior parte dei casi sono morti premeditate”.