Shoah, un libro per la Giornata della Memoria. “Il mio nome è Selma. La coraggiosa testimonianza di una combattente della Resistenza ebraica” di Selma Van De Perre.
Di Cora Craus –
“La giornata della Memoria” fu istituita dalle Nazione Unite nel 2005 quale ammonimento perché non abbia mai più a ripetersi quell’ orrore. Si celebra il 27 di gennaio perché in quel giorno del 1945 l’Armata Rossa Sovietica liberò il campo di concentramento di Auschwitz. Ricordiamoci che tutti siamo chiamati a non dimenticare e a contribuire a costruire un mondo di pace con il nostro impegno come ci ricordano le parole di Italo Calvino: “La storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano”. I libri rimangono la strada maestra per “non dimenticare”, per non cancellare il ricordo, tener viva la memoria della Shoah. Vi segnaliamo un libro, autobiografico, appena pubblicato: “Il mio nome è Selma. La coraggiosa testimonianza di una combattente della resistenza ebraica” (ed. Mondadori – pag. 168 – € 18) di Selma Van De Perre, una scrittrice di novantanove anni nata il sette giugno del 1922 ad Amsterdam.
Quarta di copertina. “Quando nel maggio del 1940 l’esercito del Terzo Reich invase i Paesi Bassi, la vita di Selma – spensierata studentessa ebrea diciottenne – cambiò per sempre. All’occupazione nazista, infatti, fece immediatamente seguito la persecuzione crudele e sistematica della popolazione ebraica. Allontanati dai luoghi di lavoro, spogliati di ogni diritto e proprietà, braccati dalla Gestapo, dalla polizia collaborazionista e dai tanti delatori, migliaia di ebrei olandesi furono deportati nei campi di sterminio, pagando, fra tutte le comunità dell’Europa occidentale, forse il prezzo più alto della Shoah.
Molti, tuttavia, riuscirono a sfuggire alla cattura scegliendo la clandestinità e combattendo nelle file della resistenza. Selma fu una di loro. Per due anni, sotto il nome di «Marga» rischiò il tutto per tutto. Viaggiò come staffetta attraverso l’Olanda, il Belgio e la Francia per raccogliere informazioni, portare ordini, falsificare documenti di identità e tessere annonarie, dare rifugio ai giovani ricercati dai tedeschi.
Contribuì alla fuga di centinaia di ebrei verso l’Europa meridionale e la Palestina. Fino a quando, nell’estate del 1944, venne arrestata e deportata, come prigioniera politica, a Ravensbrück, nel principale lager femminile della Germania nazista. A differenza dei genitori e della sorella che, come successivamente scoprì, morirono nei campi di sterminio, Selma riuscì a sopravvivere fino al giorno della liberazione sotto falsa identità. Soltanto a guerra terminata osò pronunciare per la prima volta dopo anni il suo vero nome. Selma.
Ora a novantanove anni, Selma van de Perre ripercorre una delle pagine meno note della storia della Seconda guerra mondiale, quella cioè che vide moltissimi ebrei partecipare attivamente alla lotta contro il nazismo, smentendo ancora una volta il luogo comune, così caro agli antisemiti e ai negazionisti di ieri e di oggi, delle vittime mansuete che si lasciarono condurre docilmente alle camere a gas. Entrando nella resistenza e scegliendo di sopravvivere a ogni costo, Selma, insieme a tanti altri, aveva sfidato la barbarie con la sola arma di cui disponeva, il coraggio. Per poter pronunciare di nuovo il proprio nome. Per dimostrare che all’orrore è possibile opporsi”.
Per una libera associazione tra libri e opere d’arte, anche pensando ai mille capolavori distrutti o trafugati dalla furia omicida e predatoria del Terzo Reich, ci siamo chiesti quale opera, non specificatamente creata per la Shoah, potesse sintetizzarla? Noi l’abbiamo individuata nel Cristo Morto del Mantegna, tela esposta alla pinacoteca di Brera: “Il corpo di Cristo, deposto sulla gelida tavola di un oscuro obitorio su di lui un terreo, lugubre colore”. Il lugubre colore della cenere dei forni crematori nei campi di concentramento. Un quadro che, a noi, rimanda una strana sensazione: l’assenza della forza del messaggio di risurrezione del Salvatore. E mentre ci avvolge il freddo dell’immagine della morte crudele e ingiusta di un uomo voluta da altri uomini annebbiati nell’anima. Altre anime morte che si cullavano l’illusione di essere uomini vivi, secoli dopo, sterminavano milioni di esseri umani, uomini, donne, bambini nella Shoah. Noi abbiamo immaginato un Cristo che torna ebreo per rimorire insieme con i fratelli maggiori.