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Hannah Arendt: il film sulla stesura de “La banalità del male”

di Marina Bassano –

 

Fare un film sulla figura di una filosofa non è una cosa facile, c’è il rischio di indugiare troppo sul pensiero rendendo il prodotto non scorrevole o si rischia l’opposto, facendo del prodotto un film superficiale.

Il film su Hannah Arendt del 2012, diretto da Margarethe Von Trotta, cerca di farlo con aspetti molto presenti della quotidianità della filosofa, quali l’affetto tenero per il marito e il vizio del fumo molto accentuato. Forse questi elementi stemperano un po’ una trama troppo incentrata sui dialoghi filosofici in termini comuni e sui tratti in lingua originale del processo ad Adolf Eichmann, gerarca nazista.

L’attrice Barbara Sukova fa un ottimo lavoro nella resa della filosofa, ricevendo la nomination quale miglior attrice nell’ambito degli European Film Awards del 2013, avendo già una collaborazione alle spalle con la regista nel film dedicato a Rosa Luxemburg, ottenendo a Cannes il riconoscimento come miglior interpretazione femminile nell’86. La regista tedesca infatti non è nuova al racconto delle vite di grandi donne della storia, avendo già realizzato diversi film che raccontano le donne.

Il film si concentra sulla parte della vita della filosofa riguardante la stesura degli articoli, per conto del New Yorker, sul processo svolto a Gerusalemme di Eichmann. Questi articoli, la cui stesura sarà abbastanza tribolata per il contemporaneo aneurisma cerebrale del marito, saranno raccolti subito dopo nel volume La banalità del male. Gli articoli e il volume scatenarono moltissime critiche verso la Arendt, che però andò avanti convinta delle sue affermazioni, che difese anche in università davanti ai suoi studenti.

L’originalità della sua analisi, non esaminata dai più che si fermarono solo alla facciata delle affermazioni , vede in Eichmann il prototipo dell’appiattimento dell’essere umano che il nazismo perpetrava, nella sua indole mediocre e senza un proprio modo di pensare. Una persona che avrebbe potuto essere chiunque, e chiunque avrebbe potuto dare i suoi ordini. Questo è quello che spaventa la Arendt e che denuncia nel suo trattato. La sentenza di morte, giudicata dalla pensatrice giusta, non è però esaustiva: non ha infatti chiarito fino in fondo la sua responsabilità diretta, favorendo lo sterminio, ma non mettendolo in atto personalmente. Solo un funzionario che svolgeva il proprio lavoro dunque, cosa che coincide con il diffuso sentimento di non responsabilità tra le varie figure che facevano funzionare la macchina dell’olocausto, salvo poi autoglorificarsi all’atto dell’esecuzione della condanna a morte. L’essenza più pura del male è perciò nient’altro che obbedienza inconsapevole, sistematica e rispondente a dettami esterni. Niente di radicale, solo estremo.
Quello che non ha spiegato il processo è anche come discernere il crimine quando assume i connotati di un ordine di stato, quando è in ogni cosa, quando pervade ogni aspetto della vita comune.

La facilità della caduta nel male sta nel fatto che basta eseguire, che basta non domandarsi, nel fare il proprio lavoro anche se si è funzionario di un regime totalitario. Il bene implica invece un ragionamento diverso e più difficile.

Questa analisi apparentemente fredda e distante ha fatto scalpore perché controtendenza e perché vista come una parziale giustificazione ai crimini, venuta per di più da una donna ebrea che aveva subito per un breve periodo la chiusura in un campo di concentramento. E la Arendt risulta ancor di più scandalosa anche per la sua cerchia di amici intellettuali, quando parla della responsabilità degli stessi funzionari ebrei nell’ultimo periodo dello sterminio, come velatamente emerso dal processo, ma sottolineato più marcatamente.
Un pensiero non popolare, per il quale ha subito minacce anche personali, richiami dall’università dove insegnava, allontanamenti di persone care. Ciò che dal film emerge bene è la sua risolutezza e la sua coerenza, dall’inizio alla fine, anche quando “tutto il mondo cerca di dimostrarmi che ho torto”.

Il film ha merito di divulgare a suo modo il pensiero della Arendt, anche rimanendo un prodotto di nicchia sia per la lentezza dello stesso, per la breve permanenza nelle sale cinematografiche (solo due giorni in Italia), sia a mio avviso per i troppo lunghi, seppur d’impatto, tratti del processo reale con le immagini del vero Eichmann, ma senza traduzione nella versione che ho visto io, e nelle altre versioni sottotitolate, che allontanano lo spettatore dal fulcro della vicenda e dalla sua piena comprensione. Non si tratta di argomenti facili da comprendere, perciò questo elemento e queste lunghe scene non giocano a favore della regista.

Il tutto è però centrato sull’intensità della Sukova che ci racconta la donna Hannah Arendt, così risoluta e ferma nelle sue convinzioni all’esterno, tanto affettuosamente e teneramente legata al marito nel privato.

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Marina Bassano

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