Libri di ieri emozioni di oggi: “La bella estate” di Cesare Pavese
di Cora Craus –
“Tra donne sole”, “Il diavolo in collina”, “La bella estate” sono i tre racconti racchiusi nel libro di Cesare Pavese “La bella estate”; vincitore della quarta edizione del Premio Strega nel 1950, e da molti critici, considerato il capolavoro dello scrittore piemontese.
I racconti, scritti in tempi diversi, si legano tra loro formando l’impostazione di un romanzo. Il cardine centrale del libro è il valicare, dei protagonisti, quel filo sottile che dall’ingenua e spensierata adoloscenza conduce alla maturità. Tutta la storia si svolge in un ambiente artistico-intellettuale-bohémien. Fucina umana, che per sua natura si presta a rappresentare e a incorporare le mille sfumature sociali su cui Pavese si sofferma nel tratteggiare i personaggi, anche quelli di “semplice” contorno. La vicenda si svolge in un’estate a Torino. Città, che così descrive lo stesso autore in una pagina dei suoi diari: “Un luogo che ti piace, con nuvole rosse invernali, campagne, parchi, non va descritta entusiasticamente, come facevi da giovane, bensì va rappresentata, in modo netto e chiaro, la vita che conduce chi ci vive, chi ne è espressione”. Cesare Pavese in un narrare angoscioso e magnetico mette in scena il dramma della vita in sé. Con delusioni, solitudini, affronta, in tempi ben difficili, il tema dell’omosessualità, inganni, amori e amicizie ferite, mancanza di coraggio, il sesso, la realtà dura di un lavoro più subìto che scelto da molti dei protagonisti. In questo libro vi è concentrata tutta l’essenza della tematica cara a Cesare Pavese.
Il lato positivo in questo romanzo è il lavoro, dato come certezza, tollerato, patito o scelto e amato che sia: esisteva. Come possibilità concreta e “scontata”, e non qual è oggi: ardita conquista, nuovo Vello d’oro.
In “La bella estate”, l’autore narra, con la stessa angoscia ma stili diversi, l’approccio alla vita tra “borghesi e popolo”; termini che sembrano obsoleti, noi, invece, l’abbiamo trovati ancora molto attuali. Tutto il libro rispecchia il punto di vista di un narratore esterno che è anche il protagonista: la sedicenne Ginetta, da tutti chiamata Ginia. Una storia narrata con gli occhi e la sensibilità di una donna. Conosciamo da vicino Ginetta attraverso un piccolo brano: “Veniva così il momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a casa tranquilla, senza rimpiangere la compagnia. Le notti più belle, si capisce, erano al sabato, quando andavano a ballare e l’indomani si poteva dormire. Ma bastava anche meno, e certe mattine Ginia usciva, per andare a lavorare, felice di quel pezzo di strada che l’aspettava”.
Il libro è permeato da un’opprimente e affascinante tristezza, decadenza e disincanto. Nel primo racconto, che dà il titolo all’opera, sono protagoniste modelle e pittori. Nel secondo, “Il diavolo in collina” agiscono tre studenti universitari e un ricco figlio di un industriale, in quest’ultimo personaggio, vi si ravvisarono i rampolli di casa Agnelli. Il terzo “Tra donne sole” v’imperversano un gruppo di donne della buona società torinese ostentatamente in versione bohémien. Questo racconto, appare come il più drammatico con il suicidio della giovane Rosetta, una delle protagoniste. Un avvenimento così cruento, rappresenta l’eccezione nelle opere di Cesare Pavese, in cui il nodo centrale è sempre “l’aurea mediocritas”: il dramma di un’esistenza quotidiana cui è negata lo sfociare nel dramma clamoroso.