I primi arrivi dei coloni dell’agro pontino.
di Marina Cozzo –
Le 7.30 del mattino: “treno proveniente da Treviso in arrivo al binario 2!!”.
Questo è ciò che l’altoparlante gracidante poteva trasmettere all’arrivo dei treni ed è anche la voce che ascoltavano i passeggeri, ormai stanchi del viaggio.
Allora, nel 33’, non c’erano agenzie di viaggio, né tantomeno telefonini per poter avvisare che si era arrivati. “Ma chi si voleva avvisare? Si arrivava tutti insieme, tutta la famiglia, magari tre generazioni, carichi di bagagli, di mobilia e di …speranza ”.
I viaggi dovevano sembrare interminabili su quelle dure panchine di legno negli scompartimenti per i fortunati primi arrivati, o per terra, per i ritardatari adagiati sulle proprie valige di cartone strette nello spago sfilacciato
I vagoni erano stipati di uomini, donne, bambini anche neonati, abbracciati dalle loro candide fasce con orli adorni di “punto festone”. I volti scarni e anemici per la stanchezza del lungo percorso sulle ruote ferrate e dagli stenti nelle loro terre di origine: dalle provincie di Treviso, Verona, Padova, Rovigo, Venezia Ferrara, Udine, dove c’era la fame nera e assassina.
Le notizie di un nuovo lavoro per queste famiglie povere e disperate arrivavano per mezzo dei sindacati o dei giornali. Ma non tutti potevano salire su quel treno: si doveva essere combattenti per poter partire, o meglio almeno un uomo del nucleo famigliare, magari il padre, aveva dovuto partecipare alla prima guerra mondiale.
L’arrivo in stazione della provincia di Roma, in verità, era un punto di partenza per tutti loro, per le loro storie, le loro vite.
Ordunque, ormai arrivati, scesi i bagagli, venivano accolti dal fattore o dal direttore; i loro nomi venivano pronunciati ad alta voce, poi fatti raggruppare per nuclei famigliari e veniva assegnato loro il numero del podere. Caricati su camion, di modello chiamato “pavese”, venivano trasportati verso la terra e la casa a loro assegnate per poi essere “scaricati” davanti al loro nuovo destino.
In quegli anni, i primi del 30’, però, le case dei primi coloni non erano ancora del tutto pronte: spesso all’interno di esse, infatti, si trovavano ancora gli operai che le stavano costruendo e i componenti delle famiglie che arrivavano erano costretti a dormire nella stalla oppure nella concimaia. Ma c’era un giaciglio, un tetto a riparare dalla bruma notturna quei fragili esseri nelle cui orecchie ancora riecheggiava il clangore delle rotaie, la voce del capostazione, il pianto del figlioletto per la fame o il sonno interrotto.
L’indomani il nuovo sole del mite territorio laziale avrebbe annunciato l’inizio di una nuova vita, di una nuova gente, di nuove città.