ED Racconta

In Quanto Donne

di Elisabetta Calandrini –

Il femminicidio è una parola che non mi piace, molti abbassano la testa e storcono il naso davanti a questo termine ma di meglio non ho saputo trovare. Prima del 2001 l’unica parola col significato di uccisione di una donna era uxoricidio, ma uxor che in latino vuol dire moglie alludeva all’eliminazione del coniuge in generale. La parola Femminicidio deriva dal francese feminicide ed è stata coniata per la prima volta da Diana Ruxel che la usò in un proprio saggio. Si è diffusa successivamente in Italia solo con pubblicazione del libro di Barbara Spinelli.
Chiamiamolo pure come ci pare: assassinio, violenza, omicidio ma almeno affrontiamolo come merita. Superficialmente la cronaca li chiama delitti passionali, liti familiari, dove il vicinato preferisce non ficcare il naso. Ma quello che accomuna le vittime è che sono morte in quanto donne. Che sia Sara, Elena, Yara, Melania, tutte sono ricordate per quella che è stata uccisa da… quella che è morta per… quella che è sparita e poi è stata ritrovata grazie alla testimonianza di…
Nessuno, ripeto nessuno, neppure il più esperto del settore si è mai posto l’essenziale domanda: Perché?
Ogni giorno mi capita di vedere programmi televisivi e telegiornali dove vengono riproposte in maniera quasi imbarazzante ed oscena le vite di quelle persone che come noi avevano un passato, dei sogni, un futuro da realizzare, degli amici, grandi amori, dei figli che non vedranno crescere mai più. Ho come l’impressione che muoiano tutte per l’ennesima volta.
Ma ci pensate? La loro tragica storia utilizzata come ‘tappabuchi’ per programmi pomeridiani. Drammi esposti agli occhi di tutti, senza ritegno né intimità e trasformati in sceneggiati per un pubblico troppo curioso per cambiare canale. E’ una cosa ridicola, quasi scomoda. Sono convinta che i media con i loro notiziari, i commentatori seduti a schiera uno meno interessante dell’altro, le immagini, tutta questa spettacolarizzazione, le violenti ancora nonostante l’assenza, nonostante la morte. Sono certa che ne molestino il ricordo sicuramente più bello e appagante. Cosa direbbero di fronte a tutto questo? Chissà se si arrabbierebbero.
Leggendo qua e là su internet ho scovato storie che mai sono andate in onda e forse mai verranno alla luce. Ne ho lette alcune e ho sentito i brividi salire fin sopra la testa, fino a farmi male. Ho letto di persone che anche se oggi respirano e fumano sigarette, di fronte al proprio uomo s’irrigidiscono e non reagiscono più. Sono donne offese, ferite nell’animo. Non hanno occhi neri e ferite aperte sul viso, ma siete proprio sicuri che non abbiano niente da raccontare? Che nel loro silenzio non ci sia nulla di preoccupante?
Mi torna in mente un libro della Dandini che ho letto qualche mese fa.
C’era una storia fra le tante che diceva:

Quando sono morta io lo hanno capito tutti che mi aveva ammazzata mio marito, e certo, l’aveva detto a tutti che lo faceva e l’ha fatto. Son soddisfazioni. Una sola cosa non mi torna, ma se lo sapevano tutti perché gliel’hanno lasciato fare? Ed io, perché gliel’ho lasciato fare?

A Loredana, 25 anni, massacrata con oltre 30 coltellate dal convivente.
A Maria Pia, 19 anni, soffocata e accoltellata dall’ex fidanzato.
A Elisa, 40 anni, schiaffeggiata e poi uccisa con un colpo di pistola dal marito.
Ad Anna, 34 anni, sgozzata dal vicino di casa respinto.
A Ilaria, Barbara, Valeria, Stefania, Alessandra, Carmela e a tutte quelle donne che non hanno trovato la forza e gliel’hanno lasciato fare…

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