Quella mia esperienza a Stutthof, per non dimenticare mai più.
di Alga Madìa –
Ricordo cone fosse oggi. Io e Francesca ci eravamo conosciute in aereo e con noi tanti altri ragazzi, quasi tutti non ancora maggiorenni. Vincemmo un viaggio premio non in Inghilterra, a Parigi o a Washington. In Polonia.
La Polska, era in quel periodo un Paese stanco, affaticato dal regime comunista che lo aveva indebolito a dismisura. I bambini ci guardavano mangiare un gelato (una coppetta, un unico gusto). I generi alimentari vendevano un solo tipo di pane, un’unica qualità di formaggio, di mele (piccole, verdi e gustosissime), cosi pure il prosciutto cotto. Fine.
Prima tappa di questo lungo viaggio fu Varsavia, poi il trasferimento in pullman verso Gdansk (Danzica) che sarebbe stata l’ultima. Avendo 21 giorni a disposizione le tappe previste durante il viaggio erano diverse e tutte di qualche giorno, cosicché il viaggio non fu mai stancante. Una volta arrivati nella meravigliosa Danzica il programma prevedeva anche un’escursione a Stutthof, uno dei tanti campi di concentramento in Polonia che si trovava quasi al confine con la Russia.
Forse quando si è così giovani la capacità di immaginare è davvero maggiore. Entravamo in quelle stanze con quei letti (?) che sembravano degli alveari, mentre la guida raccontava di storie di crudeltà che anche solo a doverle immaginare si sentiva crescere dentro un senso di angoscia.
Era la prima volta che partivo sola, sentii improvvisamente la voglia di casa, di mamma, di papà. Non era difficile immaginare quanti bambini fossero stati strappati alle braccia della mamma, quanti di loro avranno pianto sommessamente per il terrore, quanti invece avranno trovato il coraggio di gridare tutta la loro paura. Ricordo che mi passavo continuamente la mano sulla pancia, quasi a voler proteggere me da un rischio che non stavo correndo. Ci raccontarono di come venissero uccisi, vedemmo coi nostri occhi ciò che rimaneva dei forni crematori.
Noi, poco più che bambine , figlie della democrazia, stavamo vivendo un supplizio che ci pareva vero.
Tornando in albergo quella sera ricordo che scrissi una lunga lettera a casa (arrivata circa un mese dopo il nostro rientro), raccontando tutto ciò che avevo visto, che mai dimenticherò.
Avevo capito davvero di più della crudeltà di un’organizzazione di criminali, capillare e perfettamente strutturata. Giurai a me stessa che mai nella vita avrei consentito a chicchessia di parlare di questo tratto della nostra umiliante storia senza rispetto per quei milioni di ebrei morti. Mai avrei dimenticato.
Forse per questo non diedi così tanto peso a quello che stava succedendo fuori l’albergo, mentre raccontavo ai miei la mia esperienza. I jeans , forse di Francesca (oggetto fortemente appetito dai polacchi dell’epoca), furono rubati da chissà chi, mentre erano stesi sulla terrazza. Accorse la polizia per occuparsi del caso, mentre io continuavo a scrivere.