Sogni e letteratura in terra pontina
di Cora Craus –
“Giunge da Roma trafelato Enzo Siciliano che in calzoncini e con le bozze al braccio del nuovo numero di “Nuovi Argomenti” lo vedi fermarsi al tendone Moravia. In questo paesaggio rabbiosamente mediterraneo, fra tamerici verdastre e sinuose gobbe di terra dorata, un altro grande scrittore, torinese e di sinistra, sarebbe potuto scendere su queste spiagge se solo avesse schivato il lungo meditato suicidio. Sono certo che qui a Sabaudia Cesare Pavese avrebbe potuto scrivere un suo LA DUNA E I FALO’. (La duna e i falò – Massimo Ghini)
Cesare Pavese, il convitato di pietra: l’ospite assente eppur pervasivo, in una terra così diversa dalle sue Langhe. Questo è stato il primo pensiero che ha attraversato la nostra mente nel leggere lo stravagante passo, dedicato a Sabaudia e scritto dal fascinoso e brillante attore di tante fiction, Massimo Ghini.
E, per davvero, ci siamo chiesti se il poeta, di “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”, anziché essere confinato in esilio a Brancaleone Calabro fosse stato confinato nella nascente Sabaudia, così strettamente legata, almeno nel nome, all’identità, all’essenza del suo Piemonte, a quell’emblematico ricordo delle sue radici rappresentato dalla casa regnante sabauda, avrebbe potuto, forse, contribuire ad allontanare da lui l’ossessivo pensiero del suicidio? Interrogativi in libertà.
Dell’amato scrittore ci affascinano i temi di fondo che sviluppa lungo tutta la sua produzione letteraria: la solitudine, il “proprio” paese, la ricerca incessante delle proprie radici, l’impegno politico, civile e sociale, l’incomunicabilità metropolitana.
Tutte tematiche che si fondono in un unico richiamo alle problematiche esistenziali, all’incapacità di vivere. Realtà di cui ne divenne il simbolo, l’icona.
A lui si deve in larga misura la scoperta della cultura americana come mitico mondo della libertà, in opposizione alla chiusura repressiva del regime fascista. Difficile immaginare quale sarebbe, oggi, il pensiero di Pavese su quel sogno, su quel mito.
Lui che si batté, pagando di persona con un anno di confine, per la difesa di una donna la cui unica colpa era di essere iscritta al partito comunista.
Come nota a margine viene da pensare che “Il mestiere di vivere” Cesare Pavese non l’apprese mai, non l’aiutò il riconoscimento “ufficiale” della critica al suo valore letterario, avvenuto con il conferimento del Premio Strega, né il tormentato amore con Fernanda Pivano ed egli fu vinto dalla depressione, dal suo carattere fragile e introverso, dai difficilissimi e conflittuali rapporti umani che lo spinsero al suicidio.