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Una donna, una madre, un “poeta” : Anna Achmatova

Ah, tu pensavi che anch’io fossi una

che si possa dimenticare
e che si butti, pregando e piangendo,
sotto gli zoccoli di un baio.
O prenda a chiedere alle maghe
radichette nell’acqua incantata,
e ti invii il regalo terribile
di un fazzoletto odoroso e fatale.

Sii maledetto. Non sfiorerò con gemiti
o sguardi l’anima dannata,
ma ti giuro sul paradiso,
sull’icona miracolosa
e sull’ebbrezza delle nostre notti ardenti:
mai più tornerò da te.
(di Anna Achmatova)

di Marina Bassano- Ci sono storie che invece si dimenticano, che si incontrano per caso, nel marasma dei social network, tra un link e l’altro. Di questo devo dare merito al web, che tra l’infinita mole di materiale disponibile, ha quel 10% che vale la candela. Queste storie lette distrattamente, tra una pausa di lavoro e l’altra, in qualche caso ti fanno venire voglia di approfondire, di sapere. Così incontro Anna Andreevna Achmatova. Un nome che non dirà niente a tutti voi, compresa me prima di questa scoperta.
Nata nel 1889 a Odessa, oggi in Ucraina, a 11 anni scrive la sua prima poesia. Donna dal carattere di ferro, come si intuisce dalla poesia d’apertura, che la vita ha messo davanti a situazioni limite che hanno trasformato lo stile prevalentemente personale e amoroso della sua prima produzione in una poesia rivolta alla collettività russa. Lo pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko, questo il suo vero nome, viene ereditato da Achmat, il Khan tartaro che nel 1480 aveva lanciato l’ultima offensiva contro i prinicipi di Mosca. Una poetessa forte che rifiuta l’appellativo al femminile, preferendo il neutro “poeta”, perché le sembrava che limitasse il campo dei sensi e di sapere che la ispiravano, in ricordo di una diffusa misoginia letteraria che identificava l’essere poetesse con un’ assenza di vigore ed eccesso di sentimento. L’Achmatova perciò non voleva sentirsi definire “poetessa”.
Nel 1910 sposa Nikolaj Stepanovic Gumilev, poeta affermato. E’ nel viaggio di nozze in Italia che conosce Amedeo Modigliani, che resta affascinato dalla sua bellezza classica e ne fa a memoria sedici disegni sulla sua figura affusolata. Aderisce al movimento acmeista fondato dal marito, che si riproponeva di reagire al simbolismo evanescente. Incombe la guerra e la rivoluzione che acuiscono i problemi matrimoniali, culminando nel divorzio del 1918, poco dopo sposerà l’orientalista Silejko. Nel 1921 Gumilev verrà fucilato nei campi di concentramento russi. Il nuovo regime getta un velo di silenzio su Anna, cerca di isolarla, tenendola continuamente d’occhio, e privandola degli affetti più cari. Il suo secondo marito verrà anch’egli imprigionato per poi morire nei campi di concentramento. Nel 1938 il figlio Lev viene imprigionato sotto l’effetto delle purghe staliniane. Anna passa tutti i diciassette mesi a correre davanti alle carceri. E’ l’ansia della sorte del figlio che porta la madre a scrivere Requiem, il suo poemetto più famoso, come se fosse scritto in comunione con tutte le madri che come lei hanno subito la stessa tragica esperienza. Assume qui la funzione di testimone, di voce chiamata a tramandare ai posteri il ricordo della tragedia che sta vivendo. Benchè censurato come esplicito atto d’accusa contro il terrore di Stalin, il poemetto circola sotto forma di manoscritto.

Diciassette mesi che grido,
ti chiamo a casa.
Mi gettavo ai piedi del boia,
figlio mio e mio incubo.
Si è confuso tutto per sempre,
e non riesco a comprendere
chi è belva, chi è uomo,
e se attenderò a lungo il supplizio.
Rigogliosi fiori soltanto
tintinnio del turibolo e tracce
chi sa dove, nel nulla.
E mi fissa dritto negli occhi
e minaccia prossima morte
un’enorme stella.
La dedica del poemetto è alle altre madri:
A quelle che furono le compagne del mio stesso strazio

E così nell’epilogo:
E se mi chiuderanno la bocca tormentata
Con cui grida un popolo di cento milioni
Che esse mi commemorino allo stesso modo
Alla vigilia del mio giorno di suffragio

I troppo espliciti riferimenti al terrore staliniano come già detto impediscono la pubblicazione dell’opera:
Bisogna uccidere fino in fondo la memoria
Bisogna che l’anima si purifichi
Bisogna di nuovo imparare a vivere.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale la riporta alla realtà e sconvolge le carte in tavola: in vista della possibile salvezza di suo figlio, il regime usa la fama del “poeta” per rafforzare i valori patriottici. Anna lancia da Leningrado un messaggio via radio diretto in particolar modo alle donne, di sostegno alla causa russa e di impegno civile. Il suo grande successo tra la gente però non andava giù a Stalin che decide di nuovo di stringere la presa, rinchiudendo di nuovo suo figlio e sopprimendo le riviste che pubblicavano le sue poesie.
Bisogna attendere la metà degli anni 50 perché il suo nome possa finalmente essere libero di pubblicare e suo figlio rilasciato.

Anna muore a Mosca nel 1966. E 11 anni dopo la sua morte Requiem comincia ad essere editato in Unione Sovietica.

La sua poesia, dapprima intima e sentimentale, si va facendo espressione di un intero popolo sofferente, facendosi via via profetica. Il regime ostacola la pubblicazione dei suoi testi, accusandola di pessimismo nevrotico e di erotismo malato. La Achmatova rappresenta la memoria dello spirito della grande terra-madre sovietica, ponendosi fra le più importanti figure femminili che lottarono nelle loro opere per il diritto alla pace e alla libertà, in un’esperienza personale che abbraccia un intero popolo.
Soltanto il clima mutato dopo il Congresso del Pcus (1956) consente una sua parziale riabilitazione: le sue opere vengono rieditate più volte in patria ma il suo nome ancora fa fatica ad essere accettato ufficialmente, tanto che viene escluso nella Storia della letteratura sovietica.
Una donna da ammirare per la fragilità in amore e la corazza che la storia le ha costruito intorno, Anna Achmatova è stata un “poeta” del suo popolo fino in fondo.

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Marina Bassano

Marina Bassano

Redattrice